Ferenc Pintér, l’illustratore perfetto

Articolo pubblicato il: 16 Febbraio, 2022


Nel febbraio 2008 moriva il pittore di origine ungherese. Ivan Canu, che collaborò con lui, ricorda gli incontri e i consigli del grande maestro

Ferenc Pintér – “l’illustratore perfetto” come lo chiamavano tutti i suoi colleghi – moriva quattordici anni fa, lasciandoci l’eredità della sua arte. Migliaia di copertine di libri, manifesti e pubblicità realizzati dagli anni ’60 fino al nuovo millennio. Segretissimo, il commissario Maigret, Hercule Poirot di Agatha Christie, gli Oscar Mondadori: copertine che sono parte indelebile della storia dell’illustrazione e del nostro bagaglio culturale e visivo.

Ivan Canu conobbe Pintér nel 1998, quando era Art director della rivista di teatro Hystrio e propose al grande artista di realizzare le cover del magazine. Ne scaturì una frequentazione inaspettata e fondamentale per la formazione di Ivan. Ecco il suo ricordo.


Ivan Canu
Maigret, uno dei grandi personaggi illustrati da Pintér

Una chiacchierata informale

Con Pintér ho lavorato 9 anni, dal 1998 al 2007, fino a pochi mesi prima che morisse. L’ho conosciuto nel ’97 quando stavo rinnovando la grafica della rivista Hystrio, di cui ero un giovane e poco esperto grafico e art director, entusiasta di aver introdotto le copertine illustrate.

Gli telefonai (il numero era in elenco) e mi ricevette a casa sua, per una chiacchierata informale. Il suo appartamento era in un grande complesso condominiale, non particolarmente connotato se non per i muri dov’erano appese diverse sue illustrazioni. Ricordo la copertina del libro su Francesco d’Assisi nel salotto e una serie di illustrazioni inedite per un libro sulla guerra, scritto da un suo amico ungherese, morto molti anni prima e di cui parlava sempre con una certa commozione. La sala era divisa da una libreria dove spiccavano gli Oscar e i libri Mondadori, di cui era stato per decenni l’illustratore e il grafico delle copertine.

Lontano dai riflettori

Da quel momento, ogni 6 mesi circa, 2 volte l’anno, gli comunicavo il tema della copertina, mi mandava i bozzetti via fax (che conservo, sbiaditi nella carta chimica) e poi andavo a casa sua per vedere bozze e varianti, fra le quali in redazione avremmo scelto la versione finale. Ogni tanto l’ho visto dipingere, su un grande cavalletto molto usato e incrostato di colori, dove c’era sempre una tela o una tavola in lavorazione. Ma di solito smetteva di dipingere quando arrivavo, perché era di carattere modesto e poco incline all’esibizione.


Due copertine realizzate da Ferenc Pintér per Hystrio

Due bozzetti, prove di copertina per Hystrio

Non teneva corsi in scuole (pur avendo firmato un manuale di disegno che possiedo anche io, in una edizione ormai da collezione), non faceva quasi più neppure mostre. Era schivo, un po’ burbero, per nulla frequentatore di gallerie o incontri pubblici, soprattutto a tema illustrazione, un mondo che citava pochissimo e avevo l’impressione non tenesse in gran conto.

Memorie ungheresi

Nei nostri incontri mi offriva un caffè con la moka, nel cucinotto, e poi parlavamo a lungo nel suo studio, lui con la pipa in bocca quasi sempre spenta, delle cose che avevamo capito piacere a entrambi. Il cinema, la letteratura (in quegli anni i Italia era esploso il fenomeno Màrai, che lui conosceva bene e di cui aveva titoli in ungherese ancora inediti), la grafica dagli anni ’20 ai ’70, la storia del ‘900, il comunismo e la cultura ebraica che molto lo affascinava. Io ci infilavo sempre domande sulla sua formazione grafica giovanile a Budapest prima del ’56, le sue opinioni politiche e religiose, il suo lavoro in Mondadori.


Manifesto teatrale per Amleto e, a destra, cover per un libro di Cesare Pavese (1969)

Pinocchio illustrato da Ferenc Pintér

Aveva cassetti straripanti disegni, anche sotto il letto, migliaia di disegni come non ne ho mai visti se non negli archivi dei giornali o nelle gallerie più fornite.

Ogni tanto ne mostrava alcuni e ho visto nascere i suoi ultimi libri, dagli schizzi preparatori alle tavole finali, con varianti scartate: MacbethPinocchio e il volume antologico. Mi parlava dei difetti delle sue illustrazioni (che io proprio non vedevo), delle modifiche che lui faceva a copertine e tavole fatte decenni prima, solo perché una mano o un dettaglio dei capelli o un’ombra gli davano noia.


La seconda vita dei disegni

Mi diceva che per via della velocità che il lavoro in Mondadori gli imponeva aveva dovuto spesso “tirare via” disegni che con calma, in quegli anni in cui era un pacifico pensionato, poteva correggere. Rifaceva spesso disegni (soprattutto le celebri copertine di Maigret) per committenti privati, in grande formato.

Gli chiedevo se padroneggiasse varie tecniche e mi disse che no, lui usava di preferenza le tempere e la china, alcuni pennelli che tormentava e tagliuzzava per ottenere gli effetti desiderati. Niente acrilici, olio o altro. Nessuna carta particolare, bastava fosse buona.


Pubblicità realizzata per l’azienda Facis negli anni ’60

Il consiglio del maestro

Una volta, dopo alcuni anni che ci frequentavamo gli portai il mio portfolio e gli chiesi, con molto imbarazzo, un consiglio. Lo guardò con molta attenzione e rapidamente. Mi disse che secondo lui ero bravo e non avevo bisogno di consigli. Che se mi piaceva usare l’acrilico, che usassi quello e lo piegassi alle mie esigenze, perché una tecnica valeva l’altra se si otteneva la rappresentazione di quello che si aveva chiaro in testa. Mi disse che la cultura doveva esserci, i riferimenti, i gusti, le citazioni. Ma dovevano diventare parte integrante della propria visione, senza stonare nel disegno, senza esibirsi a scapito della lettura. Come lui usava il cinema come referenza principale delle sue illustrazioni, senza che nessuno avesse da dire: eh, facile, quelle sono le foto di Gino Cervi oppure quello è il Macbeth di Polanski.


Una prova di copertina per un libro Mondadori

Mi disse solo: se lo accetta, le consiglio di essere molto rigoroso nelle citazioni e nelle ricerche storiche, di ambiente, di contesto per i suoi personaggi. E mi indicò la copertina che avevo disegnato per La Metamorfosi di Kafka, in cui la donna di servizio sta spazzando la stanza di Joseph K. e lui è un’ombra di insetto sotto il letto, ormai alla fine della sua vita. La composizione, mi disse, è molto efficace e dice tutto quello che ci serve sapere. Ma le scarpe della donna sono sbagliate: sono un cliché delle scarpe di Cenerentola, mentre lei dovrebbe indossare degli stivaletti bassi o degli scarponcini tipici delle donne di Praga, popolane, di fine ottocento-primi del novecento. Sono i dettagli che poi restano impressi.


Due carte dei Tarocchi dipinte da Pintér

Accordo tra gentiluomini

Avevamo un accordo: delle copertine che lui realizzava, una la teneva lui e un’altra l’avrebbe regalata a me, con anche bozze e varianti. Un modo elegante e molto generoso di accontentare un ammiratore e di creargli una speciale collezione di opere. Tutte le tavole erano di argomento teatrale, alcune le aveva già nel suo immenso archivio, magari adattate a richieste specifiche che gli facevo sui temi del dossier mensile che dava l’argomento portante al numero della rivista.

Quindi poteva essere lo speciale per il Teatro Eliseo di Roma, dove una sagoma bianca con una corona giullaresca in testa e il numero 100 in equlibrio grafico fra due calici di champagne e il volto. Un rinoceronte come un carrarmato per il dossier sul teatro di guerra. Un attore amletico che fa capolino da una buca da suggeritore nel palco e solleva un enorme tampone/botola. Due sagome di acrobati per il teatro circense. Una macchina volante cyberpunk su un paesaggio da comune parigina per il primo numero dedicato al ’68. Due figure kantoriane di enorme impatto visivo. Il teschio di un bovino su un palco desertico, dal cui corno spezzato spunta una spiga.

Non abbiamo mai dovuto discutere sulle immagini, se non per alcuni dettagli, un colore. I suoi bozzetti erano così efficaci, oltre che esteticamente bellissimi, che ancora oggi, a distanza di tanti anni, hanno sempre un effetto speciale su di me e su chi li vede.


Prova di copertina per Mondadori
L’ultima visita

Un mese prima che morisse sfiancato dal cancro, ero andato a trovarlo e a parlare un po’ di cose leggere: mi raccontò un episodio della sua giovinezza a Budapest, quando la polizia comunista aveva fatto irruzione in casa a perquisire le stanze e lui, ragazzino espulso dalla scuola d’arte applicata, si era messo di traverso e si era beccato gli sberleffi degli agenti, che erano lì solo per intimidire e non perché avrebbero trovato nulla di che. Era il segnale che la famiglia Pintér se ne sarebbe andata definitivamente in Italia, in treno.


Di quell’episodio, della divisa del capotreno, come di molte altre cose aveva dei ricordi così vividi che ogni volta gli chiedevo se non avrebbe voluto raccontarsi in un libro biografico, lui che ne leggeva così tanti e così tante copertine aveva realizzato. E invariabilmente mi rispondeva, allora come le altre volte: a chi vuole che interessi, sono cose passate. Quando me ne sarò andato, anche loro non avranno più testimoni. E se ne andò, infatti, nel febbraio di quell’anno. Con modestia, in silenzio, menzionato da un trafiletto sul giornale a ricordare il gigante che tutti chiamavano “l’illustratore perfetto”.


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